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Gibellina, 50 anni dopo

Il ricordo del terremoto di Gibellina 50 anni dopo

Con una serie di eventi che andranno avanti per tutto il 2018, la Sicilia vuole ricordare il dramma del terremoto di Gibellina, avvenuto nel gennaio del 1968, ben 50 anni fa.

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Il terribile terremoto la notte tra il 14 e il 15 gennaio fece tremare la valle del Belice, causando la morte di oltre 300 abitanti e centomila sfollati. Fortunatamente le scosse più leggere avvertite a partire dalle 13:28 del 14 gennaio avevano convinto molti a dormire fuori dalle proprie case per quella notte e fu questo a limitare il numero di morti. Alle 2:33 e alle 3:01 due scosse di magnitudo  6.4 sbriciolarono le case del Belice, che erano fatte di tufo e impastate con le canne.

Gibellina prima del terremoto

Il nome di Gibellina è di etimologia araba. Gebel vuol dire monte e Zghir significa piccolo. Quindi piccolo monte, oppure Gebel ed in, in mezzo a due colli.

Prima del terremoto era una piccola cittadina con poco più di seimila abitanti divisa in sei quartieri. Era in una posizione centrale, anche se per raggiungerla bisognava percorrere strade quasi impraticabili.

Il terreno intorno ricco di argilla e povero d’acqua rendeva pochissimo nelle coltivazioni e il reddito degli abitanti era molto basso. La frammentazione della proprietà fondiaria impediva l’ammodernamento delle colture e qualsiasi forma associativa. I valori dell’analfabetismo erano sempre piuttosto elevati, come pure massiccia l’emigrazione.

Alla vigilia del terremoto, le abitazioni non avevano acqua corrente. Solo 10 avevano un pozzo, e soltanto 6 un bagno. Non esistevano locali pubblici come cinema, ristorante, bar, edicole. C’era una biblioteca ma aperta poche ore a settimana.

Gibellina viveva come tante zone del meridione una condizione di isolamento fisico e psicologico dal resto dell’Italia. L’isolamento tra l’altro rendeva la popolazione estremamente attaccata alle proprie tradizioni e al proprio stile di vita. Unico modo per tutelare la propria identità rispetto ad uno stato italiano percepito ancora come estraneo.

Gibellina dopo il terremoto

Da una valutazione fatta nei giorni immediatamente successivi al terremoto, risultarono totalmente distrutti 4 dei 14 paesi della valle del Belice: Gibellina, Salaparuta, Poggioreale e Montevago. Distrutto al 94% il comune di Santa Margherita Belice, all’87% Santa Ninfa, al 60% Partanna, al 48% Salemi e al 41% Contessa Entellina. Di minore entità furono i danni a Camporeale, Sambuca, Vita e Calatafimi. Circa 48mila abitanti su un totale di 94mila dovevano essere trasferiti e 70mila case ricostruite.

La scelta del luogo per ricostruire

Difficilmente si è verificato in Italia in occasione di altre calamità naturali di dimensioni di quelle del Belice un impiego così massiccio di capitali umani e finanziari per la ricostruzione. Il problema non era solo relativo all’assetto urbano territoriale delle zone colpite, ma anche alla ripresa economica e sociale dell’intero Belice.

La situazione socio-economica del Belice, già afflitta dal sottosviluppo derivante dalla sua storia, dalle sue condizioni idrogeologiche e dalla penuria di risorse, dopo il terremoto divenne drammatica. Già prima della tragedia l’agricoltura era arrivata ad un livello critico a causa anche della mancanza di risorse umane e dell’uso di tecniche antiche. L’emigrazione nella zona era altissima, tuttavia l’agricoltura continuava ad essere l’unica risorsa promettente.

In questo scenario si fece forte la contrapposizione tra coloro che vedevano la rinascita della valle subordinata alla creazione di imponenti infrastrutture come l’autostrada e coloro che intendevano costruire il nuovo con l’aiuto della Cultura.

La maggioranza della popolazione, con in testa il sindaco Corrao, si oppose all’ipotesi della fondazione di una città grande e nuova che avrebbe messo insieme gli abitanti dei quattro paesi distrutti. La popolazione si oppose anche perché l’area indicata era lontana dalle loro terre coltivate. Scelsero invece come sede della nuova cittadina la pianura di Salinella, a 18 km dalla Gibellina distrutta. Nonostante la proposta fosse sensata incontrò una incredibile serie di opposizioni e i lavori di ricostruzione cominciarono con notevole ritardo.

La nuova Gibellina

Gibellina Nuova è stata progettata da Marcello Fabbri, sul modello della città giardino, a pianta ellittica con molti spazi aperti.

Pianta di Gibellina nuova

Vista dall’alto la nuova Gibellina ricorda il profilo di una elegante farfalla distesa al sole lungo il nastro di asfalto della vicina autostrada.

Infatti ha due blocchi planimetrici disposti simmetrici, rispetto ad un asse longitudinale. Perciò appare come una sorta di farfalla appoggiata al terreno, con grandi ali unite dal corpo degli edifici pubblici.
I lavori di costruzione iniziarono nel 1971, cinque anni dopo venne completata la prima urbanizzazione.

Critiche alla ricostruzione artistica

La ricostruzione a Gibellina non servì solo a ricreare nuove case, scuole, edifici pubblici e chiese ma soprattutto fu il coinvolgimento di massa ad un “esperimento pilota di vitalizzazione di un’area depressa.”

Quelle popolazioni fino al momento del terremoto erano ancora pesantemente influenzate da una storia antica di miseria e asservimento. Dopo la tragedia avevano subito una forte scossa nel loro assetto economico e sociale, perciò paradossalmente si presentavano più pronte alla possibilità di rinnovamento.

Pietro Consagra è lo scultore architetto a cui si devono alcune tra le opere più straordinarie di Gibellina, come il Meeting, la stella del Belice e le porte del nuovo cimitero. A proposito delle forti critiche dichiarò che le perplessità nei confronti dell’inserimento massiccio della cultura e dell’arte nella ricostruzione dopo il terremoto erano venute da “coloro che pensano che una città in Sicilia non può permettersi tanto lusso da adornarsi con grandi opere di artisti italiani tra i più noti”.

Lo stesso Consagra citò una frase di Elio Vittorini secondo cui “chi mangia non vuole che chi non mangia balli”. Secondo molti, la critica di coloro che sostenevano che prima dei bisogni intellettuali e culturali vengono quelli materiali, era solo una scusa per non fare niente. Allora, chi ha problemi economici è destinato a vivere in un ambiente “brutto” dentro e fuori?

Un progetto che incarna lo spirito degli anni ‘60

La cultura imperante sul finire degli anni Sessanta, anni di contestazione e di entusiasmo partecipazionista, è alla base dell’esperimento Gibellina. In quegli anni si contestavano le metropoli disumanizzanti e negli ambienti culturali si ricercavano invece nuovi tipi di vita e di modelli urbani a misura d’uomo.

Così dalla fantasia degli architetti sorsero case unifamiliari a due piani con i tetti a terrazza affacciate su percorsi pedonali che gli ideatori immaginavano piene di esseri umani.  Lontani dal traffico delle automobili, avrebbero avuto modo di incontrarsi e intrattenersi a parlare. Si sarebbero seduti sotto il fresco degli alberi a chiacchierare ed intessere rapporti umani più veri.

I progettisti non immaginavano certo una tale resistenza al nuovo. Per i gibellinesi le strutture create per la loro vita sociale sembrano non esistere. Quello che colpisce i visitatori è una sensazione di vuoto, di deserto, come di entrare in una città fantasma. La nuova città era troppo diversa dalle vecchie concezioni di città, caotiche e a tratti malconce, ma vere.

Alla sensazione di vuoto l’amministrazione di Gibellina ha cercato subito di porre rimedio inserendo nel paesaggio testimonianze d’arte. Gibellina è sempre più bella e artistica, ma sembra sempre disabitata.

Due schieramenti contrapposti

Corrao ha sempre sottolineato che il ricorso all’arte e alla cultura era stato il motore indispensabile per la ricostruzione “non solo fisica “ di una collettività schiacciata e ridotta alla miseria più profonda.

Ma riusciamo ad immaginare quante critiche e polemiche ha dovuto sostenere il suo progetto?

Per molti si trattava della contrapposizione tra l’utile e il superfluo. L’utile erano le case, le strade, le fogne, le scuole anche se brutte anche se accomodate. Il superfluo era la cultura.

Per i sostenitori del progetto culturale, invece, quel tipo di ricostruzione sarebbe stato solamente una “ricostruzione della miseria”. La Sicilia voleva esprimere, attraverso l’Arte, una nuova cultura per contrastare la tendenza dello stato italiano alla modernizzazione imprenditoriale e tecnologica che dava pochissima importanza all’Arte, come se la bellezza non avesse valore.

Ricordiamo che in Sicilia gli anni ’50-‘60 furono gli anni di una selvaggia speculazione edilizia che deturpò le città, con Palermo in testa.

La tenacia di Ludovico Corrao

Nel 1979/80 quando le case a schiera furono ultimate e consegnate ai futuri abitanti e furono ultimate le prime opere di uso collettivo così come designate dagli architetti Vittorio Gregotti, Giuseppe Samonà, Ludovico Quaroni, Franco Berlanda, Carlo Melograni e altri, alle critiche degli esperti si aggiunse il disagio dei cittadini.

E’ stato per merito della mente illuminata del sindaco Ludovico Corrao se Gibellina ha proseguito nel suo progetto.

Il merito di Corrao è sempre stato quello di aver saputo presentare alle istituzioni culturali pubbliche e private, tra cui il teatro Massimo, progetti validi e degni di essere sostenuti.

Meeting - Pietro ConsagraDalla vendita di una cartella di litografie di alcuni artisti si raccolsero i fondi per finanziare altri interventi. Pietro Consagra terminò il suo Meeting, l’edificio in metallo a forma di esse, che sarebbe servito come punto di incontro degli abitanti, sala per manifestazioni culturali, museo d’arte preistorica, bar. Nel frattempo disegnava le grandi sculture che sarebbero diventare le porte del cimitero e la famosa Stella che avrebbe dovuto segnalare l’ingresso al Belice.

Nanda Vigo iniziava la sua opera di recupero di pezzi della vecchia Gibellina e li sistemava  a formare monumenti. L’artista Carmelo Cappello immaginò uno svettante cerchio di metallo cromato che gira su se stesso, grazie a un congegno elettrico nascosto alla base, riflettendo la luce splendente del sole. Emilio Isgrò sistemò le sue misteriose frecce speculari in ferro brunito.

E così la nuova Gibellina si trasforma in poco tempo in un affascinante laboratorio del “ superfluo”.

Il parere di Leonardo Sciascia

A proposito della ricostruzione di Gibellina, Leonardo Sciascia aveva più volte ricordato la ricostruzione della Val di Noto e del Val Demone abbattuti dal terremoto del 1693. Il duca di Camastra, mandato sui luoghi del disastro come vicario del vicerè, aveva presieduto alla loro ricostruzione aiutato da un canonico che si intendeva di urbanistica. Insieme chiamarono i migliori artisti del momento e ricostruirono ben ventitré paesi totalmente distrutti dal terremoto, tra cui Noto, Lentini, Catania, Avola, e altri distrutti quasi interamente o danneggiati.

L’Italia, si sa, è il paese delle polemiche. L’intervento di Sciascia nel ricordare il duca di Camastra era stato visto da molti come la nostalgia di un potere forte e accentratore. E’ evidente il destino degli uomini più dotati di non essere compresi immediatamente.

Sciascia, come Corrao, come il duca di Camastra, avevano capito l’importanza della bellezza nella ricostruzione. Perché ricostruzione significa anche rinnovamento e miglioramento. Significa che le popolazioni sopravvissute non fuggono dai luoghi devastati ma grazie alla rinnovata bellezza vi si affezionano ancor di più.  E questo significa veramente rinascita.

All’indomani del terremoto, invece, lo stato italiano pensava fosse meglio l’abbandonar quei luoghi. Ai terremotati furono offerti biglietti ferroviari gratis e passaporti rilasciati a vista. E poi aveva sospeso per questi territori terremotati la famosa “legge del due per cento”, quella legge che devolve il due per cento della spesa per le opere pubbliche agli abbellimenti artistici.

Questo provvedimento appariva come un divieto alla bellezza, l’intenzione specifica che tutto fosse ricostruito in bruttezza.

La ricostruzione non è ancora terminata

Sembra impossibile, ma a 50 anni di distanza risultano ancora centinaia di persone in attesa di fondi per la ricostruzione dei loro immobili. E alcuni centri storici di comuni danneggiati dal sisma sono ancora inagibili, come il Duomo di Sambuca di Sicilia, eletto borgo più bello d’Italia. E poi le baracche costruite per ospitare gli sfollati, demolite senza che le macerie venissero smaltite correttamente.

Ma perché questa lentezza incredibile? Forse perché la corruzione che in Italia la fa da padrone ci mette sempre lo zampino. E alla fine “la bruttezza” sembra che la spunti sempre.

Hanno iniziato a costruire, senza completarle, decine di opere pubbliche faraoniche, di nessuna utilità. Per fare degli esempi, l’Asse del Belice, dieci chilometri d’asfalto semi deserto che si ferma in aperta campagna. La piscina progettata per il comune di Poggioreale dall’architetto Paolo Portoghesi, mai completata, e il centro sociale di Partanna, una struttura eccessiva per le reali necessità, e mai completata.

50 anni dopo, un museo a cielo aperto

Gibellina, 50 anni dopo. Evidentemente le condizioni di vita degli abitanti sono molto migliorate.

I Gibellinesi dopo anni di esilio nei ghetti delle lamiere delle baraccopoli sono ritornati ad una vita normale, la vita che si conduce negli altri centri italiani. Il siciliano per natura è scettico e poco partecipe, eppure i gibellinesi grazie a Corrao avevano imparato ad essere compatti. Ai Gibellinesi piaceva la loro nuova città? Forse si, forse no, a giudicare dalle sue strade sempre vuote, ma Ludovico Corrao tornava ad essere puntualmente eletto con larga maggioranza e proseguiva nel suo progetto di dare a Gibellina una nuova identità grazie all’arte. Ci vuole del tempo, ma prima o poi si capirà il grande valore del tesoro artistico che è stato lasciato loro e sicuramente tra tre secoli Gibellina sarà apprezzata come oggi lo sono i centri della Val di Noto.

A noi italiani sembra che l’esperimento Gibellina non sia perfettamente riuscito. La sua storia è forse più compresa all’estero che in Sicilia stessa. A volte è stata presa ad esempio di come si può ridare identità e dignità ad una comunità distrutta.

Col senno di poi, a guardare indietro la storia passata, si comprendono le forze in campo e si comprende il valore di alcune figure illuminate.

Ludovico Corrao è stato strenuo difensore delle popolazioni, prima colpite dalla sventura e poi dall’inerzia governativa e dall’oblio dei poteri pubblici.

Come il duca di Camastra, Corrao aveva voluto la bellezza, l’arte e la cultura come segno forte di rinascita, e perché i siciliani non fuggissero via dalla propria terra nella disperazione. Corrao ha voluto dare ai giovani il messaggio di restare, perché in Sicilia si può vivere.

Elettrificazione, scuole, ospedali sono fondamentali, ma non meno arricchente è la cultura.

source: Gibellina – Utopia e realtà, di Nicola Cattedra